di Laura Ricci
“La Storia, non è semplicemente il tempo in cui non eravamo nati?”. Se lo chiedeva quella grande, poetica, indimenticabile figura di semiologo e quant’altro (saggista, linguista, critico letterario) che fu Roland Barthes, accingendosi a scrivere, per frammenti e immagini – solo per frammenti emozionali, tutto il resto della piatta quotidianità non conta – di sé e del più vasto mondo. Questa frase mi è venuta in mente mentre gustavo, nella semioscurità della Stanza delle Memorie, la bella e suggestiva installazione di Massimo Achilli nello spazio del Carmine di Orvieto. E, gesto di cui Barthes era teorico e fautore ben consapevole, partendo dal piacere di quel suo frammento ho “riscritto”, contaminandolo con il piacere aggiunto di una variazione, il suo testo: “La Storia, non è semplicemente la vita, la traccia che diventa memoria, l’irripetibile segno che nel suo fisico, concreto accadere non possediamo più?”.
Nella Stanza delle Memorie le immagini, su un tappeto centrale di candida ghiaia, si susseguono per circa 35 minuti; con effetti lievi di dissolvenza si accavallano, si sostituiscono l’una all’altra tra rimandi d’acqua e di nebbia, di vento e di pioggia, attutendo nell’abile naturale dono della tecnica ogni aggressione di crudo realismo. C’è la Storia di quando non eravamo ancora nate, quella che senza sapere che sarebbe diventata “Storia” abbiamo vissuto; c’è la traccia di emozioni e di ricordi che, nella fisicità dell’oggi, non possediamo più, ma che nella fertilità della penombra tornano a parlare alla nostra interezza di pensiero e di viscere.
Non importa che si conoscano o meno i volti che scorrono, le situazioni che le immagini fotografiche resuscitano, – una gita in barca, un gruppo familiare, la posa con la bici come epocale status-symbol, la foto di gruppo ai piedi della Tour Eiffel, la pensosa interiorità di molti volti di donna – i frammenti delle storie/della Storia rimandano, struggenti, alla pietas di memorie che, dal personale/dal sé, conducono a un più generale balsamo, a spiragli di senso che aprono una dimensione non soltanto interiore, ma sociale e collettiva.
Sono “storie piccole”, tanto per parafrasare l’esemplare titolo del racconto biografico di Teresa Mariniello, nate dalla memoria e dalla gratitudine verso altre donne; storie raccolte, col diverso registro della scrittura, nel significativo volume edito da LietoColle scaturito dal Concorso nazionale dell’associazione “Il filo di Eloisa”: Vite da raccontare – Donne significative nell’esperienza e nella storia di altre donne.
Nella Stanza delle Memorie, mentre le immagini delle vite ormai raccontate scorrono, le storie vengono sussurrate, tra alti e bassi, dalle voci narranti delle autrici: in contemporanea, ma con diversi e variabili volumi, da tredici microfoni. Sono le storie delle nonne – tante nonne – delle madri, delle zie o delle amiche: che ancora “vivono” ma che, almeno nella loro fisicità, hanno sovente già lasciato le narratrici. Che vivono nel loro tempo e nei loro luoghi, proiettando nell’oggi il loro testimone di trasmissione e di insegnamento.
Non importa inseguire il senso preciso dei racconti; anche se non è impossibile, avvicinandosi ai microfoni, ascoltare, nei loro saliscendi, le storie per intero. E tuttavia, mentre ne ascoltiamo una, il volume del microfono che abbiamo nell’orecchio si abbassa; le voci più lontane, asincrone e a più alto volume, ci attraggono e ci spiazzano; un accento veneto sovrasta un’inflessione toscana e, mentre inseguiamo quest’ultima, ecco che un imperioso crescendo in dialetto campano, che un deciso accento lombardo, di nuovo ci strappano dalla voce appena afferrata. Dal sussurro delle memorie si viene continuamente spostati, sbalzati altrove, spaesati: alla fine è l’onda emotiva, l’invasione simultanea e apparentemente disordinata delle voci e delle immagini a farsi prepotentemente largo nel nostro animo.
Spiazzare, cucire l’illogico affastellamento del flusso di coscienza, catturare l’onda sonora della voce, dare impulso alla dilatazione visiva della pupilla: è una stanza giocata sulle emozioni che con grande, quasi religiosa sensibilità ha voluto intenzionalmente costruire Massimo Achilli, riuscendo in pieno nella tutt’altro che semplice scommessa. E, se come credo la memoria è anche e soprattutto emozione, la piccola grande storia quotidiana delle donne ci afferra, per non essere dimenticata, da questo sacro singolare luogo.
Al centro, tra i volti pensosi di tante altre, il volto assorto, sorridente, irridente, enigmaticamente compostamente sofferente di Eloisa irrompe a tratti sulla ghiaia: vestale della stanza, nella sacralità del rito del riconoscimento e della gratitudine tra donne, Eloisa regna incontrastata. Dall’ombra del ricordo, fertile, la grana della voce di Elvira e Ornella che l’hanno raccontata…
… un raggio batteva sui suoi capelli, mentre camminava davanti a me sul sentiero tra le colline…