di Lea Melandri
Circa quarant’anni fa faceva il suo ingresso nella vita pubblica una generazione ‘imprevista’ di donne, destinata a cambiare usi e costumi e persino la categorie storiche della politica, e ne nasceva al medesimo tempo un’altra che per effetto di quella ‘rivoluzione’ avrebbe potuto vivere, se non in modo meno problematico, sicuramente meno oppressivo la propria appartenenza al sesso femminile. Nella rubrica di Posta del cuore che tenni all’inizio degli anni ’80 sul settimanale “Ragazza In”, le adolescenti si firmavano “Lacrima ’68”, “Inquietudine ’71”, ma non ci misero molto a raccontarsi, tramite lettera, con la lucidità di analisi che era stata delle loro madri nei gruppi di autocoscienza. Dopo un percorso così lungo è impossibile, anche a chi ha perseguito fissamente la propria ‘rinascita’ senza tentazioni pedagogiche o di proselitismo, non voltarsi indietro e chiedersi se si poteva fare di più e meglio.
Quando si fanno bilanci, si finisce quasi sempre per approdare a giudizi contrapposti, proclamare vittorie o sconfitte, avanzamenti o regressioni. Meno appaganti, ma più veritiere, sono le analisi che descrivono processi inevitabilmente contraddittori, conquiste dagli esiti ambigui, libertà dai risvolti servili. Non c’è dubbio che il femminismo degli anni ’70 ha fatto fare grandi passi all’emancipazione delle donne –come conquista di diritti, leggi di parità, tutela, ecc.-, ma ne ha anche mostrato i limiti, nel momento in cui si è ‘presa coscienza’ che il dominio maschile si è imposto all’interno dei rapporti più intimi, come la sessualità e la maternità, che la violenza ha finito per confondersi con l’amore. L’intuizione più originale è stata rendersi conto che l’esclusione delle donne dalla vita pubblica, e la minorità giuridica, politica, culturale che ancora scontano per questo, comincia nel momento in cui sono state identificate col corpo –corpo che genera e corpo erotico-, sottomesse e sfruttate come risorse ‘naturali’, espropriate della loro esistenza come persone, costrette a vivere per l’uomo e attraverso l’uomo. La violenza più insidiosa e più lenta da sradicare apparve allora l’interiorizzazione della rappresentazione del mondo dettata dal sesso vincente, la collusione involontaria tra la vittima e l’aggressore. Si prospettava un processo di liberazione e di autonomia che abbracciava territori di esperienza fino allora separati e contrapposti –la famiglia e la società, la sessualità e la politica, l’individuo e la collettività, la biologia e la storia- per il quale non sarebbe bastata certo una generazione.
Come tutti i movimenti che prefigurano sovvertimenti profondi, anche il femminismo ha finito per perdere la radicalità dei suoi inizi, quella ricerca di nessi tra sfera personale e sfera pubblica che oggi, saltati i confini tradizionali, lo renderebbero quanto mai attuale sia per l’analisi del rapporto tra i sessi che per le trasformazioni che hanno investito la società nel suo insieme.
La separazione tra battaglie per i diritti e modificazione della soggettività, su cui si sono andate assestando le sue diverse componenti, spiega almeno in parte perché il bilancio che possiamo fare oggi della condizione femminile è così contraddittorio. La generazione delle figlie e delle nipoti ha sicuramente più possibilità che in passato di fare scelte riguardanti la propria vita, ma la scelta non è di per sé garanzia di libertà –da pregiudizi, habitus mentali, adattamenti profondi; gode di diritti impensabili fino a pochi decenni fa, che rischiano tuttavia di restare solo formali quando urtano contro il sentire intimo, o di essere assunti con la ‘naturalezza’ di qualcosa di cui non si conosce l’origine; ha maggiore conoscenza e padronanza del proprio corpo, ma ne fa un uso discutibile, scambiando sesso con denaro e carriera. Più che ‘corpi liberati’ appaiono spesso ‘corpi prostituiti’.
Le donne sono oggi considerate, almeno a parole, risorse necessarie per l’economia e la politica, senza che per questo sia cambiata l’ideologia che le vuole essenzialmente mogli e madri. Si lamenta la scarsa occupazione femminile, l’inadeguato avanzamento delle donne nelle professioni e nei ruoli decisionali, mentre aumentano, in conseguenza della crisi e della caduta del welfare, le loro responsabilità famigliari e domestiche, la povertà e la precarietà della loro condizione. Il ‘Valore D’, tanto decantato dai giornali vicini alla Confindustria, non è, alla prova dei fatti, che un valore aggiunto, la messa al lavoro di capacità relazionali, affetti, emozioni, che porta a uno sfruttamento intensivo della vita intera dell’individuo.
Nella confusione e nella complessità in cui ci troviamo oggi a muoverci, un aiuto può venire dalle consapevolezze che, intuite nel passato, si sono fatte più evidenti:
a) la marginalizzazione che le donne subiscono in ogni ambito della vita sociale non dipende solo dalle imposizioni esterne, dalla protervia del privilegio maschile, ma dall’aver fatta propria la cultura che ha deciso del loro destino fin dai primordi della vicenda umana. Ne è prova l’illusione di poter volgere a proprio favore le stesse attrattive –materne e sessuali- che hanno spinto l’uomo a fare della donna una sua proprietà;
b) la difficoltà ad affrontare i conflitti che nascono quando i pensieri e i desideri propri non coincidono con quelli di compagni, mariti, colleghi;
c) la tendenza ad aspettare che il riconoscimento per meriti e dedizione venga dall’esterno, dalle stesse persone da cui si subiscono torti e ingiustizie;
c) il desiderio, più o meno consapevole, a conservare ruoli famigliari che, pur senza vantaggio e piacere proprio, hanno comunque garantito un’identità e forme sostitutive di potere. Prodigarsi per rendere buona la vita ad altri, dimenticando se stesse, ha come contropartita la propria indispensabilità e quindi la dipendenza di chi riceve il beneficio. E’ l’infanzia che si prolunga, nella vita adulta delle coppie e delle relazioni famigliari, convogliando tenerezza e violenza;
d) gli ostacoli che incontra il bisogno, sia pure riconosciuto e auspicato da quasi tutte le donne impegnate per la loro liberazione, di creare solidarietà reciproca, forza collettiva in grado di imporsi nel dibattito pubblico, modificare i rapporti di potere esistenti e l’ideologia che li sostiene.
La controversa libertà che tiene le nuove generazioni sospese tra gratitudine e dimenticanza verso chi le ha precedute dipende anche dallo sviluppo che sapremo dare ai tanti nodi ancora irrisolti di un disagio che ha origini lontane nel tempo ma che oggi ci incalza da vicino, riconoscibile nelle sue ambiguità così come nelle inequivocabili spinte al cambiamento.