La forza delle donne di ripensare il proprio patrimonio di conoscenza e di esperienza

Bia Sarasini a Umbrialibri lancia “La cura del vivere” come nuova chiave politica

di Ornella Cioni

sarasini

Uno degli appuntamenti centrali del pomeriggio di sabato 12 novembre 2011 ad Umbrialibri è stato l’incontro con Bia Sarasini e Annamaria Crispino che hanno presentato “La cura del vivere”, supplemento speciale al numero 89 della rivista Leggendaria.

Bia Sarasini ha illustrato il percorso di riflessione, durato quasi un anno, del gruppo del mercoledì , un gruppo romano di nove donne, per lo più di età matura (o nate prima, come adesso sembra sia politicamente corretto dire), che si confronta e dialoga con donne nate dopo intorno al concetto di cura. E’ questo un concetto che viene da lontano, tanto che è stata fatta la scelta di mettere sulla copertina del fascicolo un’ immagine classica della Madonna con il bambino in un tipico gesto di protezione. Cura, parola amata e odiata, è stata ripresa e rinterrogata, sì perché della cura avevano parlato molto anche le donne degli anni Settanta per scoprire ed affermare che quello non doveva essere il loro unico destino. La riflessione sulla cura allora era stata necessariamente legata alla ricerca e alla scelta di un percorso di emancipazione e alla proposta di un sistema di welfare, con l’idea che la cura potesse essere monetizzata o esternalizzata.

Col tempo, al di là delle difficoltà nei percorsi di emancipazione e ai limiti di un welfare sempre debole in Italia e ora più che mai minacciato dalla crisi, ci si è rese conto che comunque emancipazione e welfare non esaurivano il bisogno di cura, che vi era comunque un “resto” che non poteva essere messo sul mercato. Ci si è chieste allora che cosa c’è di prezioso nella cura, che cosa può essere rovesciato in questo concetto. Il concetto di cura infatti può cambiare di segno e di senso se diamo per scontato che sia ormai caduta, in seguito alla ricerca di libertà delle donne, quella separazione tra spazio pubblico e spazio privato e se facciamo cessare quella separazione per cui la cura è qualcosa che avviene solo nella sfera separata del privato.

Se il primo femminismo degli anni Settanta non poteva analizzare la cura se non come subalternità, costrizione che non dava identità, da cui la necessità di allontanarsene e di guadagnare un lavoro, oggi c’è abbastanza forza per operare un rovesciamento in modo che la cura diventi l’asse su cui costruire le relazioni pubbliche; c’è la consapevolezza che nella conoscenza della cura c’è la possibilità di “salvare il mondo”, per usare un’espressione drammatica. La cura va allora assunta come paradigma, chiave dell’azione politica ed è una proposta rivolta sia agli uomini che alle donne. Cura è una parola dalle molte sfumature e che in un progetto politico si presta a molti interrogativi in ambiti diversi. In riferimento all’ambiente ci si può domandare infatti che cosa succede quando non c’è cura di un territorio. E non solo quando non c’è cura da parte di chi governa, ma non c’è cura, attenzione da parte dei cittadini.

Sui risvolti economici della cura poi ci si interroga dagli anni Settanta, per esempio con le proposte di salario al lavoro domestico. Si chiede da parte di analisi svolte da gruppi di donne quale sia il valore economico del lavoro domestico nel Pil degli stati. Alla cura sono legata inoltre figure nuove della nostra società, le badanti, lavoratrici sottopagate, spesso in nero e che costituiscono con il loro reddito fattore di cambiamento nei loro paesi, un pezzo di vita importante ma svalutato nel nostro e rappresentano un ultimo , contraddittorio residuo postcoloniale. La cura però può diventare anche un punto di forza, un efficace farmaco in un momento come questo in cui le vicende della politica ci hanno portati a un diffuso senso di impotenza.

Annamaria Crispino ha letto dal fascicolo un breve stralcio del testo di Eleonora Mineo, una giovane donna lavoratrice precaria, che sposandosi riscopre ( dico riscopre perché questo tipo di analisi non era mancata negli anni Settanta-Ottanta) il piacere e il potere che può dare il lavoro di cura. Riflessione ampia e complessa, non priva di insidie , dunque quella sulla cura, ma B. Sarasini, dopo un breve scambio con il pubblico, ha riaffermato l’ambizione di questo lavoro di fare della cura l’asse portante della politica, in un momento di grave crisi non solo della politica, ma della democrazia stessa. Le donne, sostiene, hanno accumulato energia e consapevolezza per vedere cosa succede se si porta il sentimento della cura nella vita pubblica,facendo saltare la contraddizione della doppia militanza in cui in passato si sono spesso dibattute e facendo finalmente della propria passione un elemento di visibilità. La cura è quell’atteggiamento che consente di tenere insieme interiorità ed esteriorità e che ha la forza di rimotivare le individualità con piena adesione al progetto politico, mentre spesso il “noi” del Novecento era un noi esterno cui la soggettività aderiva in modo non attivo. La scommessa è quella di introdurre, rispetto alla pratica del conflitto come pratica di presa del potere, una nuova pratica non violenta che porta dalla casa alla scena pubblica il senso di cura. Le forme del patriarcato stanno distruggendo la nostra vita, bisogna trovare altre forme, ha concluso B.Sarasini, rivolgendo ai presenti l’invito a non perdersi di vista.

Invito quanto mai opportuno poiché la proposta è certamente interessante e merita di essere approfondita con la lettura del fascicolo e con un confronto di idee che le fornisca la forza e l’efficacia di camminare nel mondo. Certamente ci è sembrato meritevole il lavoro del gruppo del mercoledì e della rivista di ripensare, in uno scambio attivo con donne di generazioni diverse, una parte del proprio percorso culturale e politico cercando di dare ad esso nuova sostanza.

Commenti

Inviato da Antonietta Lelario il 15 novembre 2011 16:27
Trovo troppo affrettati i riferimenti agli anni ’70 del ‘900. Dicendo che “La riflessione sulla cura allora era stata necessariamente legata alla ricerca e alla scelta di un percorso di emancipazione e alla proposta di un sistema di welfare, con l’idea che la cura potesse essere monetizzata o esternalizzata”, si cancella un fertile conflitto simbolico che attraversò quegli anni e cioè quello tra emancipazione e liberazione. Da parte di chi privilegiava il percorso di liberazione venne un rifiuto del destino di cura e dell’immagine femminile che vi era collegata che comportò profondi mutamenti interiori e di lettura della tradizione. Lo dico fuori ormai dalle rivalità  di un tempo, perché penso che in quel conflitto ci fosse gran parte della fecondità  di quegli anni. Che cosa abbiamo partorito? La libertà  femminile. Di conseguenza gli anni successivi non sono stati segnati soltanto dalle “difficoltà  nei percorsi di emancipazione e dai limiti di un welfare sempre debole in Italia”, ma soprattutto da percorsi di libertà  che ci hanno permesso di svelare e inventare altro. In primis un altro modo di far politica. Proprio da una lettura libera delle emergenze del presente, fuori quindi dalle virtù salvifiche che gli uomini ci vorrebbero attribuire in un’ideale continuazione con la donna/angelo di sapore medievale, nasce oggi la possibilità  di ripensare la cura, come una delle forma di sapienza femminile, coltivata là dove le donne stavano e stanno: un tempo nel privato; oggi nel mondo, in cui privato e pubblico si incontrano continuamente. Proprio una lettura libera ci deve spingere a tenere insieme cura e relazione, a salvare cioè, insieme ai sentimenti che ci spingono alla cura, quella pratica che ci ha permesso di uscire dalle dicotomie soggetto/oggetto, attivo/passivo, critica del reale/modello in testa, di cui era sostanziata la cultura patriarcale.
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