di Laura Ricci
Eloisa Manciati è stata la prima persona che, a Orvieto, mi ha introdotto nella vita pulsante della città, quando da Roma mi sono trasferita qui con la mia famiglia. Quasi trent’anni fa. Ero a scuola – allora la Scuola Media “Luca Signorelli” – quando una mattina, in sala professori, si è avvicinata per propormi di partecipare a una serie di iniziative che si tenevano nell’allora CISEP, il Centro di educazione permanente, negli anni scomparso, che stava nei locali di Piazza Marconi successivamente occupati dal Distretto scolastico. Da allora sono state moltissime le iniziative, le conferenze, i seminari, i laboratori, le letture, i percorsi culturali e personali che nel tempo Eloisa mi ha proposto. Con quell’eccesso, quella passione e quel critico entusiasmo che la distinguevano, certo trovando terreno favorevole nei miei percorsi e nelle mie pratiche di vita, nelle mie scelte e nelle mie curiosità culturali e intellettuali.
Di lei mi piacquero subito i capelli fiammanti e l’eleganza del portamento, quella bellezza strana e mutevole, semplice e nobile, austera e mistica; e soprattutto il nome – Eloisa – l’incantevole storico nome dell’immortale amata-amante di Abelardo che è sempre stata, per me, un’ammaliante e forte riferimento femminile. Poi Eloisa mi spiegò che non era all’Éloïse di Abelardo che doveva il suo nome, ma piuttosto a quella di Rousseau, a quella “nouvelle Éloïse”, eroina pedagogica delle teorie del grande Jean Jacques a cui suo padre, professore e preside, aveva simbolicamente guardato per la sua missione educativa di genitore. A lei – io che quando l’ho conosciuta praticavo già, per aver avuto delle ave d’eccezione, “la differenza” – devo, della differenza, l’elaborazione teorica, l’incontro con la Libreria della donne di Milano e con le filosofe di Diotima. Mia madre, mia nonna e la mia bisnonna, nel segno di un’istintiva differenza femminile mi hanno insegnato a vivere; in quello stesso segno, Eloisa mi ha insegnato a pensare. E sebbene io consideri il vivere di gran lunga superiore al teorizzare, so che quelle teorie servono per avere riferimenti, controbattere, esemplificare, demistificare, per stare con i piedi saldi nel mondo e con la testa immersa nei libri per evitare di essere annullate.
Il nostro è stato, come si dice appunto nel femminismo della differenza, un “rapporto politico”: non un’amica con cui andare a spasso, al cinema, in vacanza o a sorbire un tè, o almeno non solo; piuttosto un riferimento femminile con cui elaborare e condividere conoscenze, costruire nuovi e diversi percorsi rispetto a sentieri già tracciati, scambiare interrogativi e consapevolezze. Silenziosamente sapevamo ognuna la forza e il limite dell’altra, eravamo ognuna all’altra affidabile.
Quella certezza di affidabilità, che con emozione ho ritrovato espressa, qualche tempo fa, in un suo biglietto nascosto tra le pagine di Vista con granello di sabbia di Wislawa Szymborska – quelle sue tracce che spuntano qua e là, impreviste spiegazzate amate, dai nostri scaffali e dai nostri libri – ci ha unito in un lungo e particolare periodo, quello in cui, con molti altri/e di diverse appartenenze e provenienze, abbiamo lavorato insieme alla costituzione dei Centri di Aggregazione Giovanile del comprensorio orvietano, nati grazie ai finanziamenti della Legge 285/97. Il progetto d’ambito, a cui Eloisa, che era allora all’Ufficio Cultura, lavorò con grande competenza, passione e dispendio di energie aveva un nome, si chiamava “L’ombelico del mondo”. Perché credevamo, appunto, che del mondo i giovani non potessero essere che l’ombelico: quella parte centrale, personale, intima che dal rapporto esclusivo con il corpo e il nutrimento della madre ci proietta, al momento della recisione, verso relazioni più complesse e interpersonali, verso un’alterità plurale che presuppone ascolto, scambio, reciproca conoscenza.
La legge 285/97, che dava indirizzi su “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, se non è stata abrogata è stata di fatto pesantemente penalizzata dal mancato rifinanziamento, ma quei primi e consistenti fondi, devoluti dallo Stato alle Regioni e da queste ai Comuni, servirono, di fatto, a creare un sistema di aggregazione, e dunque di prevenzione educativa, che in molti casi, sia pure con difficoltà economico-organizzative, si è radicato nel territorio e porta tuttora i suoi frutti. Alla legge 285 si devono i primi centri per bambini da 0 a 2 anni, i primi progetti creativi e ricreativi sul territorio portati avanti da giovanissimi (i preadolescenti), le prime esperienze multiculturali, ma soprattutto l’aver guardato per la prima volta a una fascia d’età ingrata e fino ad allora del tutto ignorata: i teenager, quei giovani dai 13 ai 18 anni troppo grandi per essere accuditi, troppo piccoli per essere trascurati. Quelli di cui gli adulti, almeno fino ad allora, ben poco si curavano.
E su questa fascia in particolare volevano incidere quei Centri di Aggregazione Giovanile per cui Eloisa tanto si prodigò, fu proprio la fascia degli adolescenti che per la sua azione progettuale scelse. Me ne occupai, insieme a lei e a molti altri/e, prima come insegnante, poi come consigliera comunale. Ero stata eletta, infatti, nel Consiglio Comunale di Porano, e sebbene fossi allora in minoranza e alle minoranze, per tradizione, non si affidassero incarichi, questo compito di referente all’interno del gruppo comprensoriale mi fu delegato per una duplice ragione: da un lato la fiducia nella mia professione di docente, dall’altro la consapevolezza che, là dove ci sono i bambini e gli adolescenti, non ci sono posizioni di influenza o di potere. Non mi avevano voluto in Commissione edilizia, compiendo un’illegittimità, ma per il gruppo di lavoro dei Centri di Aggregazione Giovanile andavo benissimo. Non c’era nulla da controllare o da autorizzare, c’era solo da lavorare.
Fu un impegno entusiasmante e partecipato, per certi versi anche conflittuale, ma oggi che la società appare più chiusa, frammentata e parcellizzata, più autoreferenziale, quei lunghi pomeriggi nella grande sala riunioni di Via di Maurizio, nell’Ufficio Cultura che oggi non è più lì, vegliate dai quadri della Galleria Sovena che oggi sono altrove, mi appaiono come un’epoca appassionante e costruttiva che non è scontato poter tornare a vivere.
Eloisa era il fulcro del sistema; in sottordine, in realtà, rispetto ai dirigenti, ma regina dello spazio quanto all’organizzazione e alla creazione del tessuto di relazioni: la Asl, le scuole, i referenti regionali, quelli dei comuni, le cooperative dei servizi educativi, le prime associazioni di giovani, i gruppi musicali govanili. Si costruì un percorso, si formarono una serie di animatori che fossero preparati e, al tempo stesso, abbastanza giovani per guadagnarsi la fiducia degli adolescenti: i Centri di Aggregazione Giovanile nacquero. La maggior parte, sia pure con modalità diverse, sono ancora attivi oggi. Per lei, che voleva sempre il meglio, che nel suo rigore e nella sua onnivora competenza culturale non sapeva mai scendere a compromessi o accontentarsi, fu anche un periodo sfibrante. Furono proprio i conflitti all’interno di quel percorso a determinare il suo trasferimento dalla progettazione culturale al servizio bibliotecario, si sentì incompresa e tradita, ingiustamente rimossa dal suo incarico e diminuita di ruolo. Credo sia stato un dolore, una ferita che, del tutto, non si è più rimarginata. Anche se poi, in biblioteca, per molti/e giovani ha continuato a essere un riferimento prezioso.
I dirigenti di allora sono andati in pensione, i giovani di allora continuano a suonare ma sono diventati adulti, io non faccio più né l’insegnante, né la consigliera di minoranza né l’assessora che poi, in concreto, il Centro Giovanile che nel suo paese tardava a materializzarsi l’aprì. Anche gli animatori non sono più, propriamente, dei ragazzi. Alcuni di loro, e i giovani che suonavano e ancora suonano, mentre faccio tutt’altro nella vita, continuo a incontrarli. Non parliamo mai di quei tempi, eppure so che nel nostro “Ciao” ora come allora quei tempi ci sono, e che il filo complice, affettuoso che ci lega è quell’aura calda ramata lucente di Eloisa. Lei così scomoda, Lei così amata.